mariel consiglia di leggere ascoltando: Nick Cave and the Bad Seeds, Red Right Hand.

Strati

Di mariel

Mi sento una luna
che corre corre corre corre
coperta da strati di nuvole
che mi disegnano il corpo…
un giorno sarò limpida

Ho iniziato la mia stratificazione nell’utero di quella che non sapevo si chiamasse ‘mamma’ e che poi non sarebbe stata madre. Sentivo ovattate le discussioni con quello che poi ho scoperto chiamarsi ‘papà’, che non ho mai conosciuto né visto. Le urla e la musica. Lei metteva su Nick Cave. Ero immersa in un liquido che, una volta fuori, è diventato strato repellente al contatto eppure viscoso come una trappola per mosche. E l’aria è esplosa soffocandomi in un’asma che mi occlude la faringe.

Non parlo. Uno strato di pelle morta quando a quattordici anni sono stata violentata. È stato M. Lo incrocio sempre il venerdì, quando sono agli orti comuni, e ogni volta, avvicinandosi alle spalle, mi chiede: «Ehi, come stai?». Io resto ferma, poi mi volto e spero che il sole mi accechi e gli sorrido. Sorrido al cielo, chissà se lo capisce. Se ne va.

Scrivo. Ho imparato a scuola come tutti. È uno strato molto pratico, mi aiuta colla quotidianità. Invece la scrittura di terapia, in casa, su quei piccoli quaderni – che mi ostino a comprare piccoli perché finiscono prima e magari smetto, ma il terapista dice di continuare – mi sfianca, mi tortura perché scava dove oramai è giunto il fondo. E mi parlo addosso.

La rabbia è arrivata a sei anni quando mamma è stata chiusa in casa di cura. E la tristezza è sopraggiunta alle spalle come una coperta d’inverno sotto un ponte, quando l’ho rivista anni dopo e mi ha rimossa dai suoi ricordi. Però insieme cantiamo. I martedì, una nenia scomposta ci culla e allora dimentico anch’io.
«Ti pizzico, ti mozzico…»

I martedì sono giorni di visita, alieni, dedicati a lei. Devo percorrere una strada che porta qualche chilometro fuori dall’abitato. Poi una dolce e curva salita costeggiata di abeti. Esco presto per sfruttare tutta la luce e devo stare attenta al ciglio della strada asfaltata. E non devo troppo inoltrarmi nei campi perché è capitato di dimenticarmi di lei e poi è tardi. E i mazzolini di fiori appassiscono tra le mani e li lascio cadere tornando indietro.
Quando riesco ad arrivare al grande cancello nero e bussare al portoncino di legno scrostato, mi lasciano ad aspettare nell’ingresso bianco immacolato sonorizzato da una playlist strumentale che mi fa assopire o mi inquieta. Poi arriva mamma, con un vestito bianco, lungo, fuorimoda, esile, i capelli cenere in un fermaglio. Se è freddo ha su un grosso cardigan fuorimisura, rosso corallo. Dovrei portarle dei vestiti. Mi muovo soltanto quando è vicina e mi porge le mani.
Andiamo verso una panchina in giardino. È un giardino curato, con le siepi tagliate in forme geometriche e cespugli di rose canine. La nostra panchina è sotto il grande carrubo ricurvo e cadente, che ha scombinato l’ordine dello spazio: è come una grotta, una buca nella costola della Murgia. Preferisco quando è caldo e stiamo all’aperto. Se è freddo ci accomodiamo nel salotto comune: il vociare è assordante e il contatto di tutte quelle mani mi rende irrequieta. «Ti pizzico, ti mozzico…»
Non riesco a parlarle di nulla, non possiamo cantare. Io guardo lei, lei guarda altrove. I martedì al chiuso sono ancora più alieni.

L’amore si è stratificato tardi. È uno strato terroso e crepato. Recente ma pare antico quanto la Terra. Una domenica sera di maggio in un pub mi ha raccolta davanti la porta della toilette. Mi ha guardata come si guarda un piccolo fiore sbocciato dall’asfalto. Mi ha innaffiata a suon di mi♭ in una murder ballad. Poi mi ha riempita di schiaffi ed è stata la prima carezza del mondo.
«Ti pizzico, ti mozzico…»
Lo strato d’amore va curato. Ogni giorno con apprensione mi specchio alla ricerca di una nuova crepa. Il terreno va osservato. E lo innaffio con lacrime e preghiere e bestemmie a un dio che non c’è. A volte penso di dover fare alieni tutti i giorni, capita quando la luce del sole è già bassa. È tardi, non farei in tempo.

Ho quarant’anni e sono così stratificata da saturare una stanza: ogni interstizio del mio rifugio è occupato da pelle e carne, grasso e ossa rotte. Ho divelto le porte, abbattuto i muri, ma sono ovunque. Nel mio giardino, invece, che lascio incolto, c’è un equilibrio e una bellezza che in paese non colgono. Storcono il naso. Ma io sto bene lì e mi dimentico di me.

Oggi è martedì. Mi sono alzata presto e mi sono attardata in giardino a osservare una libellula blu oltremare. La visita è saltata. Si è fatto tardi.
Ho accanto una piccola falce. Sono in camera, a scrutarmi davanti allo specchio. Volevo vedere dentro, come sono? Volevo guardarli, questi miei strati. Mi meraviglio a vedermi luccicare di rugiada, a scoprirmi terra di minerali ed erbe medicali, colorata da fiori di campo. Radici a tracciare percorsi e vie di fuga. Mi vedo bella. Posso curarmi da sola. Ho tutto qui.
Il pavimento, intanto, si tinge di rosso intenso, e denso. Un aglianico, che ben si sposa con le carni rosse. – Gli umani sono “carne rossa”? – Un odore ferrigno invade le narici: è il contatto con l’aria. Provo a berne. Mi ristora e dà alla testa. I martedì sono alieni.
«Ti pizzico, ti mozzico…»
Lo ero semplicemente io.

mariel
Legge, ricerca, crea – ozia – col suo gatto perlopiù di notte. I suoi strumenti sono carta e penna per scrivere e curare, ago e filo per storie e visioni tessili.
È redattrice nella rivista malgrado le mosche e catalogatrice bibliotecaria. Aspirante editor.
Ha esordito online con il racconto “Il tempio” e nella raccolta cartacea “Sciroccate. Storie di traverso da Sud” (Tamu) con il racconto “Sconfinamento 2103”.