Ammorbidente concentrato Coccolino collezione Creations, 22 lavaggi
di Alice Ceccarini
Il giorno che trovai mia nonna tra l’ammorbidente e la candeggina ero al telefono.
Era una mattina frenetica, una come altre. I nuovi ospiti sarebbero arrivati in serata, mia madre quel giorno lavorava fino a tardi e la ragazzina che ogni tanto la aiutava aveva il dentista, così a preparare le camere era toccato a me.
Avevo portato al massimo il vivavoce e incastrato il cellulare nella cintura mentre giravo per casa con lo spray in mano. Dall’altro lato del telefono c’era Arianna.
Nei momenti densi lei c’era sempre, che fossero sfoghi o traguardi condivisi. Per lo più sfoghi in quegli anni. Sproloqui, lamentele reciproche, pianti isterici colmi di frustrazione. Lei c’era.
In vent’anni avevo potuto confermarlo più volte, capito di esserne davvero sicura.
– Sei una delle poche certezze della mia vita – le avevo detto tutto d’un fiato mentre arrotolavo asciugamani e lenzuola in una palla.
Stavo sicuramente in pre-ciclo, ipersensibile e strafatta di ormoni.
Non che non lo pensassi, ma con lei c’era un’amicizia che somigliava più a quella degli uomini.
Ci davamo cazzotti, non ci dicevamo ‘ste cose. Lei mi ruttava in faccia e mi faceva notare i sentori di aglio che arrivavano dopo un po’, io la usavo come bacheca post-it. Quando mi serviva qualche documento o file importante mettevo il filtro cerca nella nostra chat, o tra le mail inviate al suo indirizzo di posta elettronica. Le intasavo la vita con la mia, lei conosceva bene i miei labirinti mentali e mi lasciava fare.
Era il nostro modo di volerci bene. In assenza di picchi vitali scomparivamo per settimane, ma se il web regalava roba interessante o estremamente stupida ce la giravamo subito. Videointerviste, gatti nevrotici, l’ultimo singolo dei Baustelle, la pagina di un libro, un metodo innovativo per aprire i melograni senza schizzare i muri.
La vita scorreva impazzita e questo era il nostro linguaggio, batterci un colpo ogni tanto, come a dire ci sono, eh.
L’improvvisa dichiarazione di quel giorno aveva quindi spiazzato anche me. Ero rimasta in apnea, ascoltavo l’eco di quello che avevo appena detto senza sapere che altro dire. Ma lei per fortuna era già scoppiata in una delle sue risate sguaiate.
– Sìì, ce pensavo pure io!
Fu un picco di tenerezza mai più superato, quello.
Scendevo le scale con il telefono appoggiato sul mucchio di roba da lavare, il mento sopra per evitare che cadesse. Lei, nel frattempo, era passata dalla sfera sentimentale a quella lavorativa, imprecando contro certi clienti che non si facevano problemi a chiamarla all’ora di pranzo della domenica.
– Cioè ma ti sembra normale?
A me niente sembrava più normale, ma lo pensai soltanto. Lei in quel momento aveva bisogno di altro, le servivano consigli pratici. Tipo quella mattina in cui alle 06:23 le avevo descritto allarmata il colore della mia urina, e lei mi aveva riposto con il link di una app che ricorda di bere acqua.
Era team cognitivo-comportamentale, lei. Passava direttamente all’azione.
Licenziati, troviamoci un rudere da sistemare, andiamo a fare marmellate…
– Fatti dare un telefono aziendale e la domenica spegnilo – le dissi invece.
Posai il mio sulla lavatrice e infilai il mucchio di panni nel cestello. Sferrai qualche cazzotto a comprimere, chiusi e passai a rassegna i flaconi stipati sui gradini accanto: Ammorbidente concentrato Coccolino collezione creations 22 lavaggi, Igienizzante Napisan, Candeggina SMAC bianco brillante formato convenienza, Lidia Fortuzzi 26/08/1936- 02/11/2020.
Un cilindro metallico, scritta oro su fondo blu.
Mi venne in mente l’orinatoio di Duchamp, a cui venne perfino dato un nome.
Quando quella sera mia madre rincasò, io giacevo sul divano da ore. Sulle gambe avevo la scatola di latta in cui mia nonna aveva conservato tutte le cartoline che le avevo inviato dal mondo, perché di WhatsApp non ne aveva mai voluto sapere. E nemmeno di farsi i buchi alle orecchie, aveva usato orecchini a clip per tutta la vita.
Fu il cane a sentir arrivare la macchina. Inclinò le orecchie e si andò a stiracchiare davanti all’entrata. Mi ero ripromessa di tirar fuori l’argomento dopo cena, a pance piene e giornate finite, invece le vomitai addosso tutto prima che avesse il tempo di chiudersi dietro la porta,
– Si può sapere che diavolo ci faceva la nonna tra i flaconi della lavatrice?
Posò le borse a terra, e una sonora pila di libri sul tavolo.
Guardò un secondo nel vuoto, poi si illuminò
– Ah, ecco dov’era.
Pensai che solo in casa mia si potessero perdere le nonne defunte con la stessa facilità con cui sparivano i telecomandi. Pensai anche che in fondo non mi stupiva, ero abituata a un tale livello di stravaganza che quella scena oggettivamente dissacrante in me aveva destato solo un lieve pizzico mentale, poi mi ero limitata a spostare la nonna sul tavolo della cucina e avevo continuato con le mie faccende. Però avevo dovuto staccare la chiamata con Arianna, perché quando le avevo descritto la cosa aveva di nuovo preso a ridere sguaiata e non dava alcun segno di voler smettere.
Dissi a mia madre che non si poteva andare avanti così, che c’era da capire che fare con quell’urna che continuava a vagare per casa neanche avesse vita propria. Mi spiegò di averla spostata quando il ragazzino che veniva per le ripetizioni ci si era imbambolato, finendo col fare domande sulla cremazione invece che sulle disequazioni di secondo grado. Che per un attimo aveva pensato di spargere le ceneri in giardino, ma che poi si era ricordata di non avere i documenti per poterlo fare. Che non voleva finire nei guai in caso di controlli, che nel caricare una lavatrice l’aveva appoggiata lì e che lì era rimasta. Si girò a guardare una foto sopra al camino, che la ritraeva da bambina in braccio a sua madre. Sorrise. Poi sistemò un angolo della tovaglia e mi chiese com’era andata la giornata.
Il giorno successivo tornai a casa sua a recuperare gli occhiali che avevo dimenticato sul tavolo. L’urna era ancora lì, si ergeva solenne tra i manuali di matematica e i rimasugli di addobbi natalizi di qualche mese prima. Ebbi l’impulso di mandare una foto ad Arianna, dicendole che probabilmente la volta successiva l’avrei trovata nel frigo, o accanto al tostapane. Invece dedicai a mia nonna qualche istante, e poi decisi di aprire il barattolo in cui era stata confinata.
Fu una scena raccapricciante. L’urna era chiusa in maniera meticolosa, quasi saldata, al punto che dovetti ricorrere a un coltello per rimuovere il tappo.
Guardai dentro, non so cosa mi aspettassi di trovarci.
La respirai a fondo, ma dell’odore agrodolce di mia nonna nemmeno una traccia.
Nel pomeriggio mi recai al vivaio di paese. Tornai a casa con un alberello di ciliegio adagiato sui sedili posteriori della macchina.
Travasai ciò che restava di mia nonna in un sacchetto dell’umido, di quelli biodegradabili che quando li chiudi si rompono e quindi ne devi usare due. Ne bastò uno. Feci una buca nell’angolo di giardino che prendeva più luce. Ci sistemai il sacchetto, e poi il ciliegio.
Ricoprii tutto, mi tolsi un bracciale e lo legai al tronco. Mentre tornavo alla macchina lanciai un ultimo sguardo al tutto. Vidi le foglie muoversi al vento e pensai di aver avuto davvero un’ottima idea.
Qualche sera dopo mi arrivò un messaggio da mia madre, mi avvisava di un nuovo check-in da organizzare, poi mi chiedeva dove fosse finita l’urna e perché improvvisamente fosse spuntato un albero in giardino.
Le mandai una foto. C’ero io di fronte al computer, con i capelli raccolti in una cipolla e una sigaretta tra le dita, nell’atto di far cadere la cenere nel cilindro.
Avevo calcolato qualche settimana, una volta piena l’avrei riportata accanto alla lavatrice.
Team cognitivo-comportamentale, pensai mandando la stessa foto ad Arianna.
Alice Ceccarini
Nasce nel ‘95 nella Tuscia Viterbese, cresce tra gatti e ulivi.
Si laurea in Lingue nel 2018 e da allora cambia lavoro con cadenza semestrale. Ogni tanto si perde, ma ha capito che le basta assecondare le necessità del suo cane per ritrovarsi. Scrive mentre è in bicicletta, quando è in fila alle poste o corre dietro al tram. Talvolta riesce a fissare qualcosa su carta e allora sente le cellule del cervello moltiplicarsi in maniera spaventosa. Attualmente vive a Torino.
Scrivi un commento